Circa il terminar d’agosto dell’1689, andavano scorrendo il Mare Adriatico due fuste di corsari spicate da Dolcigno e da Castelnovo. La divina providenza che si compiace di scherzare nel mondo, et ha mirabili strade da tirare a fine i suoi altissimi dissegni, sollevò nell’Adriatico fiera tempesta, a cui non sapendo reger la fuste, una di esse profondò nel mare con perdita di quasi tutta la gente, ma l’altra arenatasi vicino a terra su le spiagge d’Ancona, porse commodità di salvarsi à settanta tre huomini, che vi navigavano sopra, parte turchi, parte semiturchi scismatici.
Accorse tosto una quantità di persone, à si bella preda loro inviata da Dio, e detti corsari spogliati delle loro armi, e costretti a rendersi schiavi, furono tutti trasportati à Roma fuorché otto ritenuti in Ancona. Il santo zelo di Nostro Signore pensò subito in Roma à guadagnar quest’anime; onde per commissione di Monsignor Illustrissimo Tesoriere si scelsero à tal effetto varie persone spirituali e dotte, singolarmente il padre Gregorio Eliacim della Compagnia di Gesù Penitenziero per la lingua illirica in San Pietro. Il Padre, messosi ad un sì rilevante negozio, sotto la protettione di San Francesco Saverio, in lingua illirica intesa da quelli schiavi diede loro diverse istruttioni circa la necessità d’abbracciar la fede di Christo, et à conformarsi nel vivere alla sua santissima legge.
Eravi fra essi come capo, e maestro di quei, che professavano la setta di Maometto un tal turco chiamato Ussan d’Aroch di conditione Hoggia, cioè Sacerdote, Interprete e predicatore dell’Alcorano quanto zelante de suoi pessimi riti altretanto nemico di Cristo, e dell’Evangelio. A costui in maniera particolare s’ingegnò il padre Gregorio di persuadere la verità, poiché ben vedeva che, convinto questo, riuscirebbe assai più facile il convertir li suoi seguaci, ma ogni opera in darno, mostradosi l’Hoggia come un aspide sordo inflessibile a tutte le raggioni, ed à tutte le instanze.
In tanto il pover’huomo toccato dalla mano di Dio cadde in una grave malattia, per la quale fu condotto alle Carceri nove. Ivi in carcerata di alcuni altri suoi compagni parimenti infermi veniva servito con grand’assistenza de medici, e medicine anche pretiose. Né il padre Penitenziero in questo tempo di maggior pericolo mancava di proporli più efficaci e salutevoli motivi, benché spargeva le fatiche al vento, e l’Hoggia in cambio di cedere sempre più s’induriva nella sua ostinatione. Crebbe il suo male in maniera che à gli 19 di novembre già s’accostava a gl’estremi senza che giovasse rimedio veruno. All’hora il padre Gregorio volle fare gl’ultimi sforzi della sua carità per dare all’infermo la vita eterna in difetto della temporale, ma quest’imbestialito cominciò ad infuriare, ed à bestemmiare Cristo, ed ad’invocare Maometto, siché mezzo moribondo perdè quasi la parola. Molte volte ritornò il Padre ad accuitarlo, che ancora vi era tempo, che la clemenza del Signore era tutta via pronto a riceverlo, e che perciò desse qualche segno, se voleva il battesimo, ma lo sfortunato spumando e fremendo non porgea altri segni, che di somma perinacia, di sommo orrore e di sommo dispetto.
Non si perdè d’animo la carità de padre, e pregò un di coloro già convertito, e di turco già divenuto catecumeno, accioché in sua lingua turchesca esortasse il moribondo, sperando che le parole di un suo compagno gl’havrebbero fatta maggior impressione, esseguì tutto il buon catecumeno con molto aerdore, et in accorgersi, che l’altro si gonfiava, e fumava di rabbia, proferì un bel detto in virtù di quella scintilla di fede, che haveva conceputo nel cuore: "Vedete– disse – che stupenda providenza di Dio, che conduce me miserabile al cielo per mezzo della sua gratia, e tu scelerato per la tua ostinata malizia te n’andrai dannato all’inferno".
A queste voci l’Hoggia à guisa si un leone ferito fece quanto mai gli fu possibile novi atti di furore, e di sdegno, onde il padre penitenziero, deposta ormai la speranza di profittare più oltre ,si volse à circostanti già che disse: "io non vaglio à liberare quest’infelice dalle mani del demonio, ricorriamo à San Francesco Saverio, e recitiamo ad honor suo un Pater noster, et un Ave Maria, forse egli che tanto può in Paradiso ed ha tanto zelo dell’anime, gli otterrà da Dio quella misericordia, che non li sappiamo ottener noi con li nostri debili voti".
In questa maniera per esser l’ora tarda su l’imbrunire del giorno il padre se ne partì afflitto, et il misero Hoggia restò solo abbandonato da tutti come indegno, e disperato d’ogni salute.
Ma nel totale abbandonamento degl’huomini non si scordò mica di lui la pietosa beneficenza di San Francesco Saverio. Inoltrata già di un pezzo la notte, quel nuovo catecumeno, di cui poc’anzi habbiamo fatta menzione, si sentì internamente un impulso di assistere al moribondo, e di mettersi à giacere in un letticciuolo presso a lui per trovarsi pronto ad’ogni straordinario bisogno, che succedegli potesse.
Appena cominciò quivi a prendere un po’ di sonno, che svegliossi alle voci dell’Hoggia, che gridava con insolito vigore: "allà, allà, allà", cioè aiuto, aiuto, aiuto. Si accostò prontamente il catecumeno à domandargli che cos volesse, al che rispose l’Hoggia in espressione d’una devotissima allegrezza: "Giesù Christo è mio, voglio farmi cristiano, datemi il battesimo, e ponetemi il nome di San Francesco Saverio, che mi è apparso col crocifisso in mano".
Già erano le sei hora e mezza di notte, quando dal catecumeno, vennero subito avvisati di questa gran mutatione il prefetto dell’Infermeria ed altri officiali, li quali accorsi à rimirare un tanto eccesso della misericordia divina, trovarono l’Hoggia che stava in ottimo senno, e con particolar dolcezza replicava come prima che Giesù Cristo era suo, che voleva farsi cristiano, e che gli si ponesse il nome di San Francesco Saverio.
Aggiungeva pur maraviglia il sentirlo proferir varie di queste parole in buon accento italiano, mentre non era usato à pronunciarle che assai barbaramente nel modo turchesco. A sì bel miracolo tutti lodarono Dio, et il glorioso apostolo dell’Indie.
Doppo di che il frate don Pietro Moracone, curato delle carceri sacerdote di molta bontà e prudenza, esposti brevemente li principali misteri della Chiesa, l’eccitò a cordiali atti di fede, e di carità, e rispondendo l’Hoggia da vero fedele fu dal medesimo curato battezzato, e gli fu imposto il nome di San Francesco Saverio, come haveva prima richiesto.
Così rigenerato egli in altr’huomo, non più Hoggia, né turco, ma cristiano, e figliuolo di Dio, parve che la bellezza dell’anima ridondasse ancora nell’intero corpo, imperoché venne osservato, che egli si rasserenò ad un tratto il sembiante, gli si schiarì il colore della faccia, e smorzavasi à poco à poco quel fetore ingravissimo, che dianzi esalava, e suol essere proprio de turchi, come altresì degl’ebrei.
Domandò e prese un ristorativo di gallina pesta, e doppo mezz’ora, dacché haveva pigliato il santo battesimo baciando più volte il crocifisso invocando: "Giesù Giesù mio", e ripetendo spesso in volto gioviale: "Francesco, Francesco, Francesco", gli sopragiunse d’un subito un profondo letargo, e l’agonia mortale, quasi che Dio volesse porlo al sicuro della grazia battesimale; la sua agonia durò per l’appunto un giorno intiero sino alle otto hore della notte seguente, e in tutto questo tempo non rinvenne mai fuorché due sole volte, e all’ora con mostre di cristiana pietà tornava a baciare il Crocifisso, e la corona et la Santissima Vergine e la medaglia di San Francesco Saverio, e faceva tutti quegli affetti, che havrebbe fatto in simil punto, qualsivoglia de più vecchi e divoti cirstiani.
Con questa faustissima sorte il novello Francesco Saverio per haver operato in suo favore un tal prodigio, se lo consideriamo bene dovevasi per parecchi capi stimare assai più che l’illuminar d’un cieco, ò il risuscitar d’un morto.
Spuntato il giorno ascesero sopra il piano dell’Infermeria il notaro, et altri soprastanti delle prigioni esaminarono il fatto, e chiariti con una santa invidia del vero, fecero portar il cadavero nella chiesa parrocchiale, dove fu accolto, e seppellito al rito cattolico ad’eterna memoria di un sì degno, tenero, e fortunato accidente.
Tuttavia rimangono nelle carceri nuove altro vent’uno di questi miseri schiavi, che cotidianamente si vanno istruendo dal sopradetto padre penitenziere, e ci giova sperare, che sì come San Francesco ha cominciato à mostrar questa mirabile protezzione, così compirà le sue grazie, e avvalorerà gl’apostolici sudori di chi si impiega in un’opera di tanto servizio del commun Signore.